C'era una volta un lupo, magro e affamato. Un giorno, vagando in preda alla fame, questo lupo incontrò un cane. Il cane sembrava avere la pancia piena e un'aria tranquilla e soddisfatta. Così il lupo gli chiese: "Dove trovi così tanto da mangiare?". Ed il cane rispose: "È il mio padrone che mi sfama!".
Per un attimo, il lupo pensò che sarebbe stato bello avere un padrone che si prendesse cura di lui, e non dover pensare più a niente. D'un tratto, però, notò che il cane aveva il collo rovinato e dolorante. Fu allora che gli chiese: "Che cosa hai fatto al collo? Come hai fatto a ridurlo così?". E il cane rispose: "È il collare… il mio padrone me lo mette per non farmi scappare via". Il lupo sussultò e iniziò a correre via, più lontano che poteva: meglio avere la pancia vuota e la libertà, piuttosto che avere la pancia piena in prigione.
Cicerone, celebre oratore e filosofo romano del primo secolo a.C., avrebbe avuto molte osservazioni da fare a proposito di questa favola dello scrittore romano Fedro.
Cicerone si interessò alla politica e alla filosofia del diritto, scrivendo svariate opere di eccezionale valore, come il De officiis, il De legibus e il De re publica. Non fu un pensatore particolarmente originale, ma si distinse all'interno della tradizione romana (in generale, assai scarsa di riflessioni filosofiche) per aver saputo attingere a fonti diverse della tradizione greca, soprattutto Platone, Aristotele e gli stoici.
Ciò che Cicerone avrebbe senza dubbio detto, è che le catene del cane è il suo essere completamente succube del padrone non è giusto. Per Cicerone la giustizia è la "disposizione dell'anima, mantenuta nell'interesse comune, che attribuisce a ciascuno il suo valore". Anche supponendo che l'unico interesse del cane fosse quello di riempisi la pancia, non si potrebbe certo parlare di "stesso valore" tra il cane e il padrone. Il rapporto cane-padrone sembrerebbe più configurarsi come una sorta di tirannide, all'interno della quale il padrone fa le leggi e il cane non può far altro che ubbidire, ricevendo in cambio un po' di cibo come contentino. Senza rendersi conto che quel poco cibo serve a coprire le cicatrici dolorose causate dalla catena che gli stringe il collo. E questo è ciò che caratterizza tutte le tirannidi: la paura del tiranno, la sottomissione totale a lui e alle leggi che egli può volgere in ogni momento a proprio favore.
Per Cicerone le leggi non hanno valore solo se sono positive, cioè, "poste" dallo Stato (o dal Tiranno). Al contrario, Cicerone si pone sulla scia di quello che sarà il giusnaturalismo, che aveva in qualche modo caratterizzato già la cultura greca (alla quale Cicerone si ispira). Come infatti abbiamo visto nell'articolo sui sofisti, i greci credevano che ci fosse un ordine naturale intrinseco al mondo, e che le leggi non dovessero far altro che esplicitare tale ordine. Altrimenti, spiega Cicerone, se si potessero modificare le leggi a proprio piacimento, un giorno sarebbe lecito mettere la catena al cane (o al popolo) e il giorno seguente costringerlo a chissà quale atrocità disumana.
L'unica legge a cui l'uomo deve obbedire è la legge naturale, cioè quella legge che l'uomo (proprio in quanto uomo) dà a se stesso. Una legge retta dalla ragione, che trova conferme in Dio e nella Natura, che non può essere contraddetta e che rende l'uomo veramente libero e autonomo.
La legge naturale di Cicerone la ritroviamo forse molto più nel lupo che non nel cane. Il lupo, infatti, agisce in modo autonomo e razionale, senza sottomettersi, ma individuando un pericolo per la propria libertà. Libertà che sarebbe stato disposto a tutelare anche a costo della vita.
Ed è in questo senso emblematica la morte di Cicerone, che morì il 7 dicembre del 43 a.C., in nome non solo della propria libertà, ma di quella dell'intera Roma. La morte di Cicerone ci viene narrata da Plutarco in "Vita di Cicerone". Il motivo della morte è legato al rapporto controverso con Marco Antonio, contro il quale, tra il 42 e il 43 a.C., Cicerone aveva pronunciato le celebri Filippiche, orazioni di accusa. Mentre Cicerone fuggiva dai sicari di Antonio, a bordo di una lettiga, sporse la testa fuori dalla lettiga, è un sicario gli tagliò la testa. Marco Antonio ordinò di tagliare a Cicerone le mani, quelle stesse mani che avevano osato scrivere le Filippiche. La testa e le mani di Cicerone furono esposte davanti a tutti i romani, sui Rostri nel Foro, per ricordare cosa accade a chi osa opporsi al potere dominante. Per ricordare che il popolo indossa una catena, e questa catena può essere tolta solo a costo della vita.