Il menestrello Cantagallo racconta di quando il re Riccardo Cuor di Leone partì per una crociata in Terra santa, lasciando sul trono suo fratello, il principe Giovanni.
Questi, oltre ad essere infantile e sleale, al punto da essere conosciuto come il "re più fasullo d'Inghilterra" è avaro e interessato ad accumulare più ricchezza possibile. A questo scopo vessa i sudditi con tasse ingiuste e sproporzionate che sembra, però, destinare al proprio benessere personale: pensiamo alla scena in cui, insieme al fidato Sir Bis, mentre si trova a bordo della carrozza reale proprio a Nottingham, siede davanti a un sacco pieno di denaro e si vanta di rubare al povero per sfamare il ricco.
Appropriandosi dei soldi destinati alle tasse, spesso con la complicità dello sceriffo di Nottingham, l'avaro principe commette il reato di peculato. Ai sensi dell'art. 314 c.p., infatti, "Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi".
Questa norma – che apre il titolo dei reati contro la pubblica amministrazione – è posta a tutela di molteplici interessi: ad essere leso dalla condotta non è solamente il regolare e buon andamento della p.a., ma anche e soprattutto gli interessi patrimoniali di quest’ultima e dei privati.
Infatti, da un lato, il provento delle tasse dovrebbe essere destinato a realizzare gli interessi del reame, a migliorarlo e a renderlo più prospero, soprattutto nell'interesse dei cittadini; dall'altro lato, i sudditi finanziano, tramite il pagamento delle tasse, questa crescita e hanno interesse a che tali somme di denaro non vengano destinate ad altro. Il principe Giovanni, appropriandosi del ricavato delle tasse, delude entrambi questi interessi.
Il peculato è un reato proprio: è punito il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio. Come abbiamo già visto negli articoli precedenti, il soggetto che riveste il potere legislativo, giudiziario e amministrativo – o che li riveste tutti e tre contemporaneamente, come un monarca – è un pubblico ufficiale e può commettere il reato in questione. Avevamo parlato di queste nozioni qui e qui.
La condotta incriminata è l'appropriazione di denaro o beni altrui, di cui l'agente abbia il possesso o la disponibilità per ragioni legate all'ufficio o al servizio.
In particolare, per "appropriazione" si intende il comportamento uti dominus, destinato cioè a materializzarsi in atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, in modo da realizzare una vera e propria interversio possessionis, finendo per comportarsi come si comporterebbe il proprietario e quindi interrompere illecitamente la relazione funzionale tra la cosa e chi dovrebbe essere il suo legittimo proprietario. L'avaro monarca, infatti, nel momento in cui entra in possesso delle somme di denaro, le considera a tutti gli effetti come proprie e le utilizza esclusivamente a fini personali, distraendole dal loro scopo pubblicistico.
Presupposto della condotta è, quindi, innanzitutto il possesso o la disponibilità della cosa. Ai fini del possesso, si ritiene sufficiente che l'agente eserciti un potere di fatto sul bene, direttamente collegato ai poteri e ai doveri funzionali dell’incarico ricoperto: l'infantile principe ha effettivamente a disposizione le somme di denaro che derivano dalle tasse, come si evince dai numerosi sacchi contenenti monete d'oro da cui egli è sempre circondato.
Quanto alla disponibilità, rileva anche la possibilità di disporre della cosa a prescindere dalla materiale detenzione, nel senso che è configurabile il peculato anche in casi di possesso mediato, in cui l’agente dispone della cosa per mezzo della detenzione di altri, in modo che comunque possa tornare a detenere in qualsiasi momento. È il caso in cui le somme di denaro sono nella disponibilità dello sceriffo di Nottingham, longa manus del principe Giovanni nella riscossione dei tributi.
Altro presupposto è l’esistenza di una relazione funzionale tra la cosa e l’agente. Ciò significa che sia il possesso sia la disponibilità del bene devono trovare la loro ragione nell’ufficio o nel servizio svolto dai soggetti pubblici: il principe è il sovrano e, come tale, possiede il denaro perché dovrebbe amministrarlo nell'interesse del reame.
È proprio il titolo in virtù del quale l'agente possiede la cosa che distingue il peculato dall'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., che non richiede alcuna qualifica affinchè sia integrato il reato.
Ultimo requisito è l’altruità della cosa di cui l'agente si appropria. Nel nostro esempio, i soldi delle tasse appartengono ai cittadini: destinandoli a sé stesso e ai propri interessi, l'immaturo leone commette il reato di peculato.
Ed effettivamente il principe Giovanni viene condannato: quando re Riccardo torna dalla crociata mette il fratello e i suoi scagnozzi ai lavori forzati, ripristinando l'equità e la giustizia nel regno.