"Il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l'esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso, nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia o vi siano colture in atto suscettibili di danno.
Egli può sempre opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall'autorità.
Per l'esercizio della pesca occorre il consenso del proprietario del fondo."- art. 842 c.c.
Ereditato direttamente dal Code Napoléon, l'articolo 842 è figlio di quella Rivoluzione francese che si batté per spogliare la nobiltà di qualsiasi privilegio. Cosa c'entra questa storia con la nostra fiaba? Lasciate che ve lo racconti.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1789, ricordiamo, sancì l'uguaglianza di tutti i cittadini e l'abolizione di ogni beneficio di casta e di titolo: ciò avvenne non meno che per la caccia. Una volta rimossa quella prerogativa di stampo feudale, quel "diritto di riserva" per cui solo il signore poteva legittimamente cacciare sulle proprie terre, l'attività venatoria divenne gradualmente libera per qualsiasi uomo.
Questo nuovo principio è giunto fino a noi, trasposto nell'art. 842 c.c.. Grazie ad esso, l'anziano cacciatore Amos Slade può addentrarsi nel terreno della Signora Tweed, "padrona" del cucciolo di volpe, Red, per andare in cerca di animali con il piccolo Toby.
Il tratto veramente caratteristico di questa norma è la fortissima "compressione" che esercita sul diritto di proprietà e che rappresenta davvero un unicum del nostro Codice civile, consentendo di transitare e svolgere la caccia perfino nei possedimenti altrui – vedremo, con i relativi limiti – anche a prescindere dal consenso del legittimo proprietario.
L'ingresso nei fondi regolato dalla norma in esame è, d'altra parte, connaturato al tipo stesso di attività: elemento essenziale dell'azione di caccia – o almeno, di quella c.d. in forma vagante – ne costituisce un presupposto necessario, non essendo possibile praticare questa disciplina senza spostarsi alla ricerca della selvaggina.
Ovviamente ciò non significa che il vecchio Amos possa andare a zonzo, sempre e comunque, nelle tenute della signora Tweed e degli altri vicini.
La legislazione venatoria pone una serie di vincoli specifici (di diversa natura) volti in particolar modo alla tutela e conservazione della fauna selvatica ma, prima ancora, l’art. 842, comma 1 c.c. si occupa di vietare l'ingresso nel fondo qualificabile come "chiuso" ai sensi della legge sulla caccia.
Questa è la legge 157/92, rubricata "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio". L'art. 15, comma 8, racchiude la definizione di "fondo chiuso", caratterizzato dal rispetto di taluni requisiti:
- la presenza di muro, rete metallica, o di altra effettiva chiusura, di altezza non inferiore a 1,20 metri;
- la delimitazione da corsi o specchi d'acqua perenni il cui letto abbia la profondità di almeno 1,50 metri e la larghezza di almeno 3 metri.
I proprietari o i conduttori di tali terreni, prosegue l'art. 15, dovranno infine provvedere all'apposizione di adeguate tabelle indicanti la presenza di un fondo chiuso ed il (conseguente) divieto di caccia.
La facoltà del cacciatore è quindi limitata ai fondi non recintati, esercitabile cioè solo nei confronti di quei proprietari che non abbiano manifestato, con la sistemazione dei cartelli, di volersi avvalere dello jus prohibendi insito nel diritto di proprietà (Corte Cost., sent. 12 marzo 1976, n. 57).
Se la signora Tweed fosse invece titolare di un'azienda agricola potrebbe avvalersi di un secondo divieto che, ancora ai sensi dell'art. 842, comma 1, proibisce l'attività venatoria su terreni in attualità di coltivazione. Sono da considerarsi tali i campi di certi tipi di piante, i frutteti specializzati, i vigneti e gli uliveti specializzati, i terreni coltivati a soia e a riso, nonché a mais. Risulta evidente, in questo caso, l'esigenza di proteggere le colture dai danni.
Il comma 2 ci ricorda che il proprietario può sempre opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall'autorità.
Rispetto ad altri paesi infatti, quali i nostri "nemici-amici" di common law, ove la caccia si configura quale vero e proprio "diritto", in Italia quest'attività assume più la fisionomia di "concessione" governativa. Un carattere derivante anzitutto dal fatto che per praticare la disciplina è necessario il possesso della c.d. licenza di caccia (o, più precisamente, del porto d'arma lunga ad uso di caccia); in secondo luogo dalla natura stessa del porto d'armi, nel tempo delineatosi quale situazione eccezionale-derogatoria rispetto al divieto generale di detenzione armi (art 699 c.p.).
Similmente accade per la pesca che, seppure non preveda l'utilizzo di armi in senso stretto, è subordinata all'esercizio con apposita licenza. La differenza è racchiusa nel terzo comma: dove la facoltà di caccia trova (a certe condizioni) ampio spazio, per pescare all'interno di specchi d'acqua situati in fondi altrui occorre certamente, in ogni caso, il consenso del proprietario.