Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitemnestra, è una delle eroine più celebri della mitologia greca. Il mito di Ifigenia ci viene consegnato dalla tradizione in diverse versioni; la narrazione che seguiremo in questo articolo è quella che narra il tragediografo greco Eschilo all'inizio della tragedia Agamennone.
Agamennone è il capo degli achei e comandante della spedizione greca nella guerra di Troia. Durante il viaggio verso Troia, la flotta greca resta bloccata ad Aulide a causa dell'ira della Dea Artemide, che ha scatenato venti sfavorevoli alla partenza per vendicarsi di un torto fattole da Agamennone. L'indovino Calcante spiega ad Agamennone che l'unico modo per placare l'ira della Dea e permettere alla flotta di salpare è sacrificare ad Artemide sua figlia Ifigenia. Morire per seguire quella che potremmo definire una "legge divina". Nella versione del mito di Eschilo, Agamennone sceglie di sacrificare la figlia Ifigenia, piegandosi così alla legge divina e alla volontà degli dei.
Morire pur di seguire la legge. È giusto?
Per la mentalità greca del V secolo, sì. Esemplare, in tal senso, è la vicenda socratica. Socrate è senza dubbio il più importante e il più enigmatico filosofo che ci è pervenuto dalla tradizione greca. Non scrisse nulla, nessun trattato, nessun dialogo; tutto ciò che sappiamo di lui, lo dobbiamo a quanto scrissero i suoi discepoli (tra cui, soprattutto, Platone). La fama di Socrate è certamente dovuta anche alla drastica morte. Nel 399 a.C., Socrate viene accusato da alcuni politici ateniesi di corrompere i giovani e di non credere agli Dei della città. In seguito ad un lungo processo (narrato da Platone nell'Apologia di Socrate), nonostante l'innocenza di Socrate, questo viene giudicato colpevole e condannato a morte. È qui che si crea il divario tra ciò che sarebbe "giusto" fare e ciò che le leggi (divine o positive) prescriverebbero. Proprio come Agamennone deve scegliere se sacrificare o meno sua figlia Ifigenia, così Socrate deve scegliere se restare ad Atene e morire, o fuggire da Atene e vivere.
Nel Critone, un altro dialogo di Platone, si narra il tentativo del discepolo di Socrate (Critone) di convincere Socrate a fuggire da Atene per avere salva la vita. Socrate, tuttavia, rifiuta la fuga e sceglie di restare fedele alle leggi della città. Secondo la visione socratica, infatti, le leggi sono come genitori rispetto ai cittadini. È proprio grazie alle leggi che siamo nati, che siamo stati educati e che possiamo vivere. Il cittadino, dal punto di vista socratico, si colloca quindi in una posizione di inferiorità e subordinazione rispetto alle leggi. Il solo fatto di accettare di vivere in uno Stato significa accettare determinate leggi: violare le leggi significa commettere una gravissima ingiustizia. Non possiamo sfuggire dalle leggi, l'unica cosa che possiamo fare è rimetterci alla loro volontà, anche se questo significa sacrificare la propria vita, o, nel caso di Agamennone, la propria figlia.
Con ciò, Socrate non intende dire che le leggi sono sempre giuste o incontestabili. Così come non sono incontestabili le decisioni degli Dei della mitologia greca, spesso mosse da invidie e gelosie. Ciò che si intende dire, e che il mondo greco aveva bene a mente, è che le leggi, divine o positive, occupano una posizione superiore rispetto all'uomo, il quale può solo seguirle e accettarle in modo passivo, né sfidarle né fuggire via.